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18 Febbraio 2014
La nostra storia ebbe inizio un freddo pomeriggio di novembre, quando io ferii un grosso cinghiale. Per cercare di rimediare alla svelta al mio colpo maldestro feci subito un primo grave errore: mi lanciai all’inseguimento da solo e con impeto eccessivo. Tribolai parecchio, ma dopo un’emozionantissima cerca riuscii finalmente a finire quel verro. Purtroppo andò a morire in un angusto crepaccio quando ormai era notte fonda. Lì feci il mio secondo gravissimo errore: anche se a caccia eravamo in quattro, non chiamai nessuno e decisi di scendere da solo nel burrone, smanioso di vedere da vicino quell’animale che mi aveva fatto tanto dannare. Quando mi resi conto di cosa stavo facendo era troppo tardi. Il terreno sul ciglio del crepaccio, sconnesso e friabile, cedette sotto il mio peso ed io caddi, non so per quanti metri, fin dentro il ruscello sottostante. Non so chi dovetti ringraziare, se Diana, Sant’Umberto, Dio o forse mio nonno che mi protegge da lassù, ma me la cavai con “solo” un braccio rotto (frattura scomposta del radio), contusioni multiple e qualche punto di sutura. Per un “selvatico” come me, dover stare qualche giorno in convalescenza nel periodo di caccia aperta fu uno strazio maggiore del dolore fisico. I miei amici più “sadici”, tutte le sere venivano a trovarmi per raccontarmi le loro imprese personali e quelle della squadra, ma solo il vecchio Mario capì realmente il mio stato d’animo e cercò, come meglio poteva, di tirarmi su di morale. “Marco, ho preso una quota per cinghiali in una bella e famosa AFV toscana. Domenica fanno una battuta nel recinto, perché non ci vieni?” “Ci mettiamo sul palchetto insieme, così magari riusciamo a fare anche una bella ripresa con la videocamera” Io, che ad una “Cacciarella” parteciperei anche se fossi costretto sopra ad una sedia a rotelle, accettai volentieri e con entusiasmo, nonostante l’accanitissima opposizione della mia iperprotettiva, ma comprensiva mogliettina. La riserva descrittami da Mario la conoscevo già, come anche il suo illustre gestore, ma non avevo mai avuto l’occasione di parteciparvi ad una battuta al cinghiale. Quando io e Mario arrivammo in azienda mi guardai intorno per vedere se ci fosse qualche volto noto ma non riconobbi nessun dei cacciatori. Dagli accenti dovevano essere quasi tutti di Roma e dintorni. Conoscevo invece qualcuno dei canai e col direttore dell’Azienda ci scambiammo un freddo saluto perché nell’ambiente ero già abbastanza noto. Ebbi l’impressione che non fosse tanto felice di vedermi e il mio sospetto venne confermato quando, mostrandogli il braccio ingessato, gli chiesi se potevo occupare un palchetto vuoto per fare una ripresa. Mi rispose sgarbato, sostenendo che come invitato da un “quotista” dovevo salire con lui sul suo. Le leggi erano quelle e lui non poteva farci niente se saremmo stati scomodi e stretti. Ammiccai e Mario, che aveva ascoltato il discorso, fece altrettanto. Facemmo un’abbondante colazione a base di caffè, the, formaggio e salcicce serviti da camerieri in divisa con tanto di farfallina! Poi, dopo il sorteggio delle poste, raggiungemmo la zona cintata a bordo di alcuni fuoristrada. A noi era toccata la numero quindici, alla detta di alcuni canai doveva essere una buona posta perché si trovava al centro di una biforcazione a ” T” da dove avremmo avuto un’ottima visuale su tre stradoni: quello alla nostra destra, quello alla nostra sinistra e quello davanti. Quando la raggiungemmo vidi che, sporgendomi, intravedevo sei – sette poste. Fui quasi certo che se fosse saltato un cinghiale in prossimità di una di esse, sarei riuscito a fare una bella ripresa. Nel nostro palchetto stavamo veramente scomodi, ma riuscimmo comunque a sistemarci in qualche modo. Mario controllò il suo Express giustapposto F.lli REDOLFI in calibro 444Marlin, mentre io il mirino della mia Panasonic VHSC. Il gestore della riserva, giustamente chiamato dai suoi subalterni “Signor Direttore”, piazzò tutte le poste e schierò il fronte della bracca con un fare quasi militaresco. Fu la prima volta che vedi i fieri canai maremmani vestiti con una tuta arancione simile a quella degli stradini. Guardai Mario e gli dissi “ Che organizzazione!” Finalmente suonò il corno. Mario caricò l’express, sentii le poste vicine scarrellare le loro semiautomatiche ed i canai liberarono i loro ausiliari. I cani partirono subito a canizza, ma un veterano come il sottoscritto s’accorse subito che abbaiavano al vento piuttosto che su delle fatte fresche. Infatti, dopo pochi minuti l’entusiasmo iniziale della muta andò pian piano affievolendosi. Passarono diversi minuti in completo silenzio, poi sentimmo qualche flebile abbaio ed infine anche un sparo. “Ma allora i cinghiali ci sono!”, mi venne da sussurrare al mio compagno d’avventura. Non voglio far soffrire troppo i miei amici lettori, così vengo subito al sodo. A dispetto della sfarzosa coreografia, tutta la cacciata durò meno di due ore. Nessuna delle poste che avevo vicino sparò un colpo né tanto meno io ebbi l’occasione di riprendere un cinghiale “al salto della carrareccia”. In tutto, sì e no, sentimmo dieci spari e quando finalmente suonò la tromba di fine cacciata personalmente ero più curioso che incazzato, anche perché, per quello spettacolo fantastico e per le forti emozioni provate, non avevo pagato una lira. Un’aiutante del “Direttore” ci condusse al ritrovo presso il cancello d’ingresso della zona cintata dove, con mia grande sorpresa, trovai, belli ed allineati pronti per l’immancabile foto di rito dieci grossi veri. Erano tutti maschi adulti sui sessanta – settanta chili, puzzolenti ma dotati di notevoli difese. Spalancai gli occhi per lo stupore perché se nelle riserve che normalmente frequentavo a quei tempi (e che tuttora frequento) avessero immesso degli animali simili nelle battute “cintate”, non credo che a fine cacciata i canai avrebbero riportato a casa qualche segugio incolume. Nel giro di pochi minuti, intorno al cospicuo Tableau, c’eravamo tutti. Le poste, i bracchieri, il Direttore ed i suoi aiutanti in seconda. Chissà se fu colpa della botta in testa che avevo preso o degli antibiotici che mi somministravano, ma sta di fatto che mi scappò una frase: “Ma questi cinghiali quando li hanno abbattuti?”. Il Direttore, a sentir quelle parole, mi fulminò con lo sguardo e mi fece segno di seguirlo in disparte. “Tu fatti i c..zi tuoi!” mi rimproverò con cipiglio. Il tempo, per fortuna (o purtroppo) mette giudizio. Vent’anni fa avrei reagito diversamente ad una frase simile, ma poi ho pensato al porto d’armi, alla famiglia ed al posto di lavoro così non gli ho neanche risposto. Nel frattempo i luogotenenti del Direttore si prodigavano a giustificare il congruo carniere. “Lei dottore ha sparato?” “Si. Ho sbagliato un porcastrello!” gli rispose un distinto ed anziano signore. “Non l’ha sbagliato dottore! E’ uno di questi, l’abbiamo trovato vicino alla sua posta morto.” “Ma io ho tirato ad uno piccolo” “E’ questo, stia tranquillo. Non lo sa che quando i cinghiali corrono sembrano più piccoli”. A quel punto si fecero avanti in molti a reclamare, “giustamente”, un bel trofeo. “Anch’io ho tirato ad un cinghiale, e, ripensandoci bene, credo proprio di averlo ferito!” fece un altro. “Ha ragione ingegnere. Il suo l’ho recuperato io. E’ quello là. Quello tutto brinato”, gli rispose veloce uno degli aiutanti. In men che non si dica ci ritrovammo a tavola e dopo che i camerieri in frac ebbero aperto diverse bottiglie di Morellino di Scansano, tutti quanti erano felici e contenti. Fu soltanto sulla strada di ritorno che al buon Mario illustrai i sospetti su come, secondo me, fossero andate veramente le cose. Ogni tanto anch’io quando organizzo una battuta in un recinto, per dare ai partecipanti dei pezzi di cinghiale più grandi seziono anche dei cinghiali abbattuti il giorno prima, ma sempre dopo averlo dichiarato apertamente. Armare una battuta al cinghiale in un recinto “seria” non è facile come sembra. Ci vuole una struttura adeguata, dei buoni cani scovatori, battitori ma che non siano da “presa”, poi ci vogliono dei cinghiali di cattura, di medie dimensioni, che sappiano correre bene e che non si fermino spesso ad ingaggiare pericolosi duelli con gli ausiliari. Se qualcuno dei suddetti fattori non è perfetto, la cacciata non dovrebbe essere fatta, altrimenti può accadere quel che è capitato a me e all’amico Mario quel simpatico giorno in Maremma, e per fare le parti ai cacciatori si deve ricorrere a dei capi fuggiti…dalla cella frigorifera. La caccia nelle AFV e specialmente le battute nei recinti è come l’amore mercenario. Chi ne ricorrere lo fa perché, per motivi di tempo, per gli impegni di lavoro od altro ci è quasi costretto, ma questo non vuol dire che quei cacciatori siano inesperti, ingenui o poco addirittura pochi furbi. Personalmente ho l’impressione che molti Direttori – Gestori di molte famose Aziende Faunistiche Venatorie credono nel contrario. Dico ciò perché recentemente ad un gruppo di carissimi amici è capitato di rivivere in Umbria, in una riserva vicino ad Amelia, un’avventura molto simile alla mia. Io credevo che il mio fosse stato un caso sporadico, invece ho saputo che ancora qualcuno fa troppo il furbo, abusa della buona fede di tanti appassionati cacciatori confidando nella loro buona fede. A questo punto mi sono sentito in dovere di rispolverare quell’increscioso episodio per cercare di mettere in guardia chi decide di partecipare ad una battuta a pagamento in un’azienda che conosce poco e gestita da imprenditori piuttosto cha da seri cacciatori. La caccia è bellissima in tutte le sue forme, ma occhio alle fregature, perché sono sempre in agguato come il più pericoloso dei selvatici
Marco Benecchi