La Corte Europea riconosce il diritto alla “obiezione di coscienza venatoria” – Ars Venandi

La Corte Europea riconosce il diritto alla “obiezione di coscienza venatoria”

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La Corte Europea riconosce il diritto alla “obiezione di coscienza venatoria”

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091412337cacciaIl proprietario di un fondo non è tenuto a tollerare che altri vi pratichino la caccia, se l’esercizio di tale attività si pone in contrasto con le proprie convinzioni personali e morali.  Secondo la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), infatti, essendo l’attività venatoria esercitata a fini prevalentemente ricreativi, una legislazione nazionale non può impedire al proprietario di negare l’accesso al proprio fondo quando la caccia è vista da chi non la pratica come una ingerenza sproporzionata di terzi nella propria sfera privata.

Non vale a contrastare tale opinione la constatazione che la caccia soddisfa l’interesse generale a che siano preservate soltanto le specie sane di selvaggina e che le coltivazioni siano tutelate contro i danni provocati dalla presenza indisturbata di animali selvatici. Neppure il riconoscimento di un compenso al proprietario tollerante è considerato dalla Cedu un rimedio proporzionato alla perdita del suo diritto a manifestare i propri convincimenti a favore della protezione della fauna selvatica.     

Il caso oggetto della sentenza (Cedu-Grande Camera, 26.6.2012, Herrmann vs. Germania) non costituisce una novità assoluta, essendo stata la Corte già in altre occasioni investita del compito di verificare se possa essere sacrificato il diritto di proprietà in presenza di un interesse della collettività, quale è quello alla pratica venatoria.

La particolarità della pronuncia risiede nel fatto che i giudici hanno adottato un concetto ampio di proprietà, riconoscendo al titolare non soltanto un diritto reale sul bene fondo ma anche un vero e proprio diritto di esprimere e attuare, attraverso il fondo, le proprie idee. Vengono, cioè, garantiti il diritto a non subire invasioni di terzi nel proprio terreno e il diritto a non lasciare che le convinzioni altrui alterino il proprio rapporto con il fondo e con l’ambiente circostante, che si traduce nella libertà di non rendere disponibile il fondo per la cattura e l’uccisione degli animali selvatici.

La decisione adottata dalla Corte assume particolare rilievo per l’Italia, appartenente alla categoria di quegli Stati membri nei quali il proprietario non può impedire a terzi di entrare nel proprio fondo per praticare la caccia, a meno che egli non abbia provveduto a recintarlo o non abbia destinato lo stesso a colture determinate suscettibili di essere danneggiate (così stabilisce il codice civile, all’art. 842).

Una legge speciale del 1992 riconosce al proprietario il diritto di opporsi all’esercizio dell’attività venatoria, inoltrando entro 30 giorni dalla pubblicazione del piano faunistico-venatorio una richiesta motivata al presidente della giunta regionale. La richiesta è accolta quando si tratta di tutelare produzioni agricole condotte con sistemi sperimentali o a fini di ricerca scientifica, oppure quando vi è la necessità di evitare un danno ad attività di rilevante interesse economico, sociale o ambientale (l. 157/1992, art. 15, co. 4). L’attività venatoria è invece vietata nei fondi chiusi da muro o da rete metallica o da altra recinzione di 1.80 di altezza ovvero da corsi o specchi d’acqua perenni aventi una larghezza di almeno 3 metri (art. 15, co. 8).

La sentenza della Cedu, quindi, amplia notevolmente i confini della proprietà privata, riconoscendo al titolare il diritto di opporsi alle attività di caccia anche quando non insistano sul proprio terreno particolari coltivazioni o attività bisognose di specifiche tutele, e anche quando il proprietario decida di non scegliere le attività da esercitarvi. 

 

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